Moise Kean si è raccontato a Sporweek, la rivista della Gazzetta dello Sport.

Il tuo nome di battesimo ha il significato che pensiamo?
«Sì, è la traduzione francese di Mosè. Mia mamma ci teneva molto a chiamarmi così».

A te piace?
«Certo. È particolare. Unico».

E tu ti consideri unico?
«Sì. Sono una persona molto particolare. Ho un modo di vivere tutto mio. I miei amici sanno come sono fatto, con loro posso essere me stesso».

In cosa sei diverso dagli altri?
«Mi esprimo in maniera diretta. Sono molto silenzioso e osservo tanto chi c’è di fronte e attorno a me».

Sei padre di Marley, che ha poco più di un anno: come pensi di educarlo?
«A me è mancata la figura paterna, quindi con mio figlio cerco di costruire un rapporto solido e mi impegno a non fargli mancare niente. È importante che lui sappia fin da ora che io ci sarò sempre, per aiutarlo e dargli un consiglio. Il mondo è crudele, perciò più un padre è vicino al figlio, meglio è».

Su Instagram non ci sono foto che ti ritraggono con lui e a la madre.
«Io e lei non viviamo insieme».

I tuoi genitori sono originari della Costa d’Avorio. Arrivano in Italia nel ’90, dieci anni dopo vieni al mondo tu, cinque anni dopo ancora si separano e tu vai a vivere ad Asti con tua madre e i tuoi fratelli. Oggi hai recuperato il rapporto con tuo padre?
«Non voglio parlare di questo».

Hai detto a Dazn: “A 13 anni avevo già grandi responsabilità”.
«È vero. Ero cresciuto soprattutto per strada con gli amici, poi mi sono trasferito a Torino. Sono andato via per giocare a calcio, e le responsabilità derivavano dal fatto che fossi consapevole che dal mio futuro dipendesse anche quello della famiglia. Mia mamma lavorava tanto, mio fratello era lontano, e io avevo la mia famiglia sulle spalle, come è tuttora».

Queste responsabilità ti hanno aiutato a diventare grande in fretta, o, a pensarci oggi, sono state troppo grandi da sopportare, a quell’età? 
Più che altro, nei primi mesi mi è mancata la mamma. Però capivo che era il momento di rimboccarsi le maniche e tornare con qualcosa anche per lei».

Hai detto anche:Non sono stato un figlio facile da gestire”.
«Ero tanto per strada. Mamma faceva i turni in ospedale, a volte tornava la sera tardi e io stavo ancora fuori, girando tra i tornei di calcio notturni. Avevo la ritirata alle dieci, ma volevo divertirmi e davanti agli occhi avevo solo il pallone. In fondo ero un ragazzo come tutti gli altri».

Cosa ti disse tua madre quando così piccolo partisti per Torino?
«Non voleva lasciarmi andare perché preferiva che studiassi. I dirigenti della Juve le dissero che nel convitto dove sarei andato a stare, avrei pure studiato. Faticarono un po’, ma alla fine riuscirono a convincerla».

E tu, hai studiato?
«Sì… (ride). Abbastanza. Però ho smesso prima del diploma, non ci stavo più dentro: a 16 anni ho esordito in A».

Un’altra tua frase: “Ogni brutto momento è un insegnamento”.
«Ne ho avuti tanti, di brutti momenti. Anche belli, ma sono stati di più quelli brutti. L’ultimo è legato all’infortunio che ha condizionato quasi tutta la scorsa stagione e mi ha impedito di dare il cento per cento nelle partite. È stato un momento buio».

Come l’hai superato?
«La famiglia mi è stata vicina, ma arriva sempre un momento in cui ti ritrovi da so- lo davanti allo specchio. Mi sentivo triste perché le cose che volevo fare non mi riuscivano. Nella mia testa visualizzavo il tiro, il dribbling, la finta, poi non riuscivo a metterli in pratica e pensavo: “Cazzo, non ci riesco”. Ma sapevo che dopo il buio torna la luce e quindi anche per me sarebbe arrivato il giorno in cui avrei dimostrato a tutti chi sono e di cosa sono capace».

A questo proposito, hai anche detto: “Mentalmente sono uno davvero forte”. «Sì. Ho vissuto delle cose che pochi ragazzi possono capire». Fa silenzio, sembra riflettere, poi ripete: «Andare via a 13 anni è pesante».

Come ti convincevi del fatto che sarebbe tornata la luce?
«Credo molto in Dio. Sapevo che il momento buio che stavo vivendo mi sarebbe servito da insegnamento. Ero stato messo alla prova da Dio, e dovevo accettarla, anche se al momento fa male. Bisogna essere forti e andare avanti».

Un tuo compagno di squadra alla Fiorentina, Robin Gosens, ha studiato Pscologia, lui stesso ha avuto bisogno di uno psicologo, e in un’intervista ha ricordato ai tifosi, che sembrano dimenticarlo: dietro al calciatore c’è l’uomo coi suoi problemi. Tu ne sei sempre uscito da solo, o c’è stata una volta in cui hai dovuto chiedere aiuto?

«Io sono uscito dalle difficoltà grazie alla fede. Mi sono dato alla preghiera. È vero che la gente a volte ci vede solo come persone che indossano una maglia e corrono per il campo. Ma io sono uno normale, come tutti, come quelli che alla domenica mi guardano giocare. Sono sempre io, Moise, quello che sta con gli amici, si diverte con loro e ogni tanto insieme a loro fa le cazzate di un tempo. Non sono mai cambiato per nessuno, non ho paura di nascondere o modificare l’immagine che do di me. Se c’è da scherzare, scherzo; se c’è da litigare, litigo. Dopo la scuola, da bambino, andavo in oratorio a giocare a calcio con gli altri. Lo farei ancora adesso, dopo l’allenamento, ne avrei voglia ma so che non posso, non mi è permesso. Ma è una delle cose che mi mancano di più».

Ti definiscono un “trap boy”: che vuol dire?
«Trap sta per trappola. È uno stile di musica rap che va molto di moda, è una musica particolare. Se ascolti una canzone trap, ti viene da restare dentro al beat, e quel beat ti fa restare in trappola. Capito?»

No. Quindi, tu saresti un trap boy?
«Sì. Mi piace essere descritto in questo modo».

Quella per la musica è una passione che condividi con Rafa Leao.
«Stiamo lavorando a un disco insieme. Rafa è un amico, un ragazzo d’oro. L’ho conosciuto tanti anni fa giocando contro in nazionale e da lì abbiamo mantenuto un legame molto stretto. La connessione che ho con lui e con McKennie non ce l’ho con altri, nel calcio».

Tra te e Rafa, chi capisce più di musica?
(sorride) «Tutti e due».
Chi più di moda?
«Forse io» (ride).

Quando inizia la tua passione per la musica?
Ad Asti, durante le partitelle con gli amici. Alcuni giocavano, altri restavano in disparte ad ascoltare o fare freestyle. A volte mi staccavo dal gioco e andavo in mezzo a loro. Cominciai a pensare che un giorno avrei voluto fare musica per esprimere la mia personalità, dire chi ero. Quando Dio ti dà più doni, perché non esprimerli? Oggi vorrei far capire che se uno è bravo in una cosa, può farcela anche in un’altra. È un concetto che in Italia ancora non c’è».

Nel tuo periodo peggiore, le canzoni hanno avuto un ruolo nel farti tornare a galla?
«Sicuramente. Anche nei momenti difficili scrivevo tanto. E scrivo tanto ancora adesso. E parecchie altre cose non le ho ancora tirate fuori».

E cosa scrivi?
«Non si può dire tutto: vedrai».

Se invece dovessi spiegare te stesso in tre parole, quali useresti?
«Una sola: raro».

In coincidenza del tuo ritorno in maglia azzurra, Luigi Garlando ha scritto sulla Gazzetta, ricordando le esclusioni tue e di Zaniolo dalla Under 21 e le mancate convocazioni nella Nazionale maggiore per i vostri ritardi alle riunioni tecniche, che è il momento di uscire dal Paese dei balocchi.
«Io non sono mai entrato nel Paese dei balocchi. Che piaccia o no, sono un ragazzo di 24 anni a cui piace la musica, tornare a casa dagli amici e giocare alla Play. Sono uno come tanti. Poi lo so, che ci sono cose che non vanno fatte».

Hai esordito in A che avevi 16 anni, sei stato il primo Duemila a segnare in Champions e il secondo marcatore più giovane nella storia della Nazionale, a 19 anni e 23 giorni. Può essere che su di te le aspettative siano state troppo alte fin da subito, finendo per caricarti di uno stress eccessivo?
«Come ho detto, a volte la gente dimentica che ho 24 anni. Non sono più un ragazzino, ma mi piace fare ancora le cose da ragazzo, perché i 24 anni non tornano più. Ne ho sentiti di cinquantenni che mi dicevano: “Quanto vorrei avere ancora la tua età”».

Ma ti sei mai sentito addosso la pressione di dover dimostrare qualcosa?
«No. Nella vita le pressioni sono altre. Nel calcio non esistono pressioni. Quelli erano pensieri che gli altri si facevano su dime».

E tu, che opinione avevi di te stesso all’esordio in A? È vero che agli inizi cercavi più la giocata a effetto e oggi sei diventato (anche) un attaccante di fatica? «Crescendo ho studiato bene il mio ruolo, cosa che prima non facevo. Prima effettivamente cercavo di più la giocata, mi piaceva prendere in giro l’avversario. Lo faccio ancora adesso, eh, però ho capito che devo anche correre, pressare, scattare, aiutare la squadra. Se voglio essere leader e avere una squadra che mi segue, in campo devo farmi il mazzo».

Nelle prime 7 giornate di campionato sei il calciatore che si è creato o ha avuto il maggior numero di occasioni per segnare, ma hai fatto due gol appena: devi aggiustare la mira o correre di meno? Mah… Sincero, non lo so. Voglio solo an- dare in campo e divertirmi».

Palladino ti ha messo al centro del progetto.
«Io e il mister ci intendiamo bene. Mi ha aiutato molto, in campo e fuori. Lui è giovane, è stato attaccante, ha ben chiaro cosa chiedermi – innanzitutto di andare in profondità – e cosa gli posso dare. Ha tanta ambizione e ama le sfide. E poi siamo una squadra giovane e piena di talento, faremo bene».

Vivi in una città meravigliosa…
«Infatti abito in centro. La gente è passionale, tiene molto alla maglia».

Alla Juve cos’è che non ha funzionato? Sulla bilancia pesa di più quello che hai dato o che hai ricevuto?
(ci pensa su) «Sapevo che avrei potuto dare di più. L’ultimo anno poi è stato di sfiga, con l’infortunio che mi ha tolto lucidità. Al momento sai che è difficile, poi, però, sei grato a quelle difficoltà perché ti insegnano a gestirle in maniera differente, se dovessero ricapitare. La stagione scorsa è stata di insegnamento. Ora sono a Firenze, sto bene, tutti mi vogliono bene e io voglio bene a tutti».

C’è una scelta che non rifaresti? «Sinceramente? No».

Com’era allenarsi con Mbappé, nella stagione al Psg?
«Bello. È stato il mio anno migliore a livello realizzativo, poi c’è chi dice (imposta la voce) “eh, ma grazie, avevi vicino Mbappé, Neymar… Li avrei fatti pure io” (alza gli occhi cielo e sorride). Io so solo che ho imparato tanto. Ricordo quella volta prima di una partita casalinga: io mi ero colorato i capelli di blu, Mbappé mi viene vicino e fa: “Me li coloro pure io di blu, tu segni, io segno, e poi esultia- mo toccandoci la testa, così facciamo la fusione dei colori”. Era un momento in cui Kylian non segnava neanche con le mani, eppure andò proprio come aveva predetto. E, dopo il suo gol, mise la testa accanto alla mia».

Perché il Psg non ti ha riscattato dopo una stagione da 16 gol in campionato? «Le cose non accadono mai per caso.

Ognuna ha una spiegazione dietro». Moise, di te è stato scritto che finora non hai trovato il tuo posto nel mondo. Ci sei riuscito a Firenze?
«È ancora presto, ma adesso torno a casa col sorriso. Era una cosa che mi mancava da un po’».

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